Joël Dicker: «Dentro tutti noi si cela "Un animale selvaggio"»

Lo scrittore svizzero parla del suo ultimo thriller

Joël Dicker: «Dentro tutti noi si cela "Un animale selvaggio"»
di Riccardo De Palo
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Sabato 11 Maggio 2024, 21:23

«L’Italia per me è un Paese speciale: mia nonna era di Trieste, e i miei primi ricordi sono i suoi lunghissimi viaggi in macchina verso Sud. L’Italia è un mondo intero che mi torna in mente, la lingua che parlava mia madre con gli zii, quando passavamo l’estate da loro». A parlare è lo scrittore Joël Dicker, ieri ospite d’onore al Salone del libro di Torino, il cui ultimo thriller, Un animale selvaggio, è al top della classifica dei bestseller. «Vengo spesso in Italia dalla Svizzera e ho sempre avuto questa sensazione, rara e intensa, di essere a casa».


Il suo nuovo libro è ambientato, appunto, tra Ginevra, Saint-Tropez e l’Italia. Chi è l'animale selvaggio del titolo?
«Sono io, è lei, è il lettore. È la capacità di ognuno di fare appello al proprio istinto, di ascoltarsi, in un mondo fatto di social netrwork in cui siamo tutti rivolti verso l’esterno: spiamo la vita degli altri, ascoltiamo l’opinione degli altri... Non ci ascoltiamo mai veramente».


Lei si sente mai un animale selvaggio?
«Cerco di fare appello come posso all’animale selvaggio che è in me, di pensare non quello che la gente si aspetta da me, ma quello che desidero veramente. Quando il romanzo si apre, i personaggi principali si trovano in un momento della vita in cui devono fare delle scelte, ma capiamo subito che non si sono evoluti abbastanza, che non hanno avuto modo di ascoltarsi». 


Sophie e Arpad vivono in una magnifica villa sul lago di Ginevra e sembrano una coppia felice, ma ci rendiamo conto che qualcosa non va, vero?
«Ci sono le apparenze, ovvero l’immagine che trasmettiamo agli altri, e poi le proiezioni che gli altri fanno su di noi. Capiamo subito che Sophie e Arpad sono felici: stanno festeggiando il quarantesimo compleanno di lei. Ma in realtà questa è soltanto l’idea che i loro vicini, Greg e Karine, hanno di loro. E questo permette di raccontare le apparenze attraverso due diverse angolazioni».


Qual è il segreto del thriller perfetto?
«Uno scrittore inglese, William Somerset Maugham, ha scritto che “ci sono tre regole per scrivere un libro di successo ma sfortunatamente nessuno sa quali siano”. Ed è vero che scrivere un buon libro sia complicato, perché non sai mai se funzionerà. Ma nel mio caso, quello che mi sembra essenziale è seguire la massima di Borges: “Ogni storia ben raccontata è un thriller”. Vuol dire che il segreto è riuscire a catturare l'attenzione».


È soddisfatto di come il suo libro di maggiore successo, “La verità sull’affare Harry Quebert”, è stato trasposto in una serie tv?
«A dire il vero non avevo un’aspettativa particolare, ma soltanto l’esigenza che si svolgesse negli Stati Uniti, che fosse fedele alla territorialità del libro. Sapevo che sarebbe andata così, era quello il progetto, il regista me lo aveva garantito. Non era la mia serie tv, bensì quella di Jean-Jacques Annaud, ma sono felice del risultato. Alcuni lettori mi hanno chiesto se nel libro avrebbero trovato le stesse emozioni della tv, e ho riposto di no, perché sono due cose diverse. È come andare al ristorante e chiedere al cameriere se il pesce sa di carne».


Ci sono altri suoi libri che potrebbero diventare film o serie?
«C’è interesse per due romanzi, ma non è ancora stato fatto alcun passo concreto.

Il lettore può avere l’impressione che i miei libri siano molto cinematografici, ma in realtà quando si prova a trasporli sullo schermo, ci si rende conto che non è così. Se provano a seguire la storia con tutti quei flashback di momenti diversi del passato, i produttori capiscono subito che non è così semplice».


Lei era molto legato al suo storico editore Bernard de Fallois, grande amico di Simenon. Dopo la sua scomparsa ha deciso di creare una casa editrice. Come sta andando?
«Molto bene, e il mio lavoro non è cambiato molto: già da Bernard ero molto coinvolto nella scelta della copertina, nell’aspetto e nel formato del libro, ed ero sempre io a gestire i diritti per l’estero. Quando lui è morto (nel 2018 a 91 anni, ndr), sarei rimasto, ma lui aveva deciso nelle sue ultime volontà di chiudere la casa editrice. Mi sono detto: non voglio tradirlo, fonderò il mio marchio».


Nei suoi libri la passione muove sempre i fili dell’intreccio. Qual è la sua definizione di amore?
«Ciò che ci permette di sublimare la vita per superarla, varcare il limite della nostra realtà, andare avanti in un modo diverso, come non potremmo fare da soli».


Quando scrive?
«Cerco di alzarmi il più presto possibile, perché per me la mattina presto è un orario perfetto per lavorare: ho l'impressione che il mio cervello sia più concentrato. Vado avanti almeno fino a mezzogiorno. Poi mi occupo delle riunioni. Il lavoro amministrativo lo lascio per il pomeriggio, quando sono meno concentrato».


Scrive spesso, è inevitabile nei thriller, di persone crudeli. Lei ha mai fatto qualcosa di cui si è pentito?
«La peggiore crudeltà è quella che commettiamo senza rendercene conto, ferendo gli altri involontariamente. Nei miei libri le persone sono spesso motivate da frustrazioni, da sentimenti molto umani: sono prese da sé stesse, dalle loro difficoltà, dai loro risentimenti. Questi stati d'animo possono farci agire in un modo che poi rimpiangeremo, ma poche persone sono fondamentalmente cattive».


In questo libro lei, che è nato a Ginevra, ha scritto per la prima volta del mondo delle banche e del riciclaggio. Come mai?
«Utilizzo questo luogo comune per andare altrove. Mi piace molto il cliché, perché è un modo per inquadrare un personaggio, per poi decostruirlo e ri-raccontarlo, con le inevitabili sorprese del caso».


Sa già come sarà il prossimo suo libro?
«Se lo sapessi eviterei tante ansie e preoccupazioni. No, ancora non lo so, ma ho un’idea in mente. Non mi piace però prendere una decisione, finché non diventa concreta. È il libro che a un certo punto sceglie l’argomento. Appare all’improvviso, non è l’autore a farlo. Ci sono ancora dei dubbi, che sono positivi, perché permettono di capire perché scrivi, e di lavorare con ponderazione, senza automatismi». 


È vero che quando inizia a scrivere un romanzo non sa mai come andrà a finire?
«Sì, non lo so mai ed è sempre un piacere scoprirlo. Per me è un test per capire se scrivo in modo meccanico o se lo faccio perché sono spinto io stesso dalla curiosità di conoscere l’epilogo. È un motore molto importante per me, scrivo spinto dal desiderio di sapere». 

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