Spinta e accompagnata dal compagno, Luce vola a Londra per incontrare un famoso genetista il quale le propone un – costosissimo - aborto terapeutico. La legge inglese, a differenza di quella italiana, non pone limiti di tempo, «ma mette la madre al primo posto di fronte a casi difficili e incurabili come questo». Luce è in preda al panico, sente il bimbo muoversi nella pancia, cosa che le rende impossibile prendere una decisione. «Stanno aspettando una mia risposta, ma non so se riesco a sopportare un peso del genere. Il peso della ragione. Mio figlio troppo debole per vivere e troppo potente per morire». Sono gli occhi di Pietro accanto a lei a dirle che «la vita non è sempre un dono, e non è neanche un dovere». Rientrata in Italia dopo l’operazione, Luce si sente lacerata, fragile come carta velina e del tutto incapace di amare. Anzi l’amore incondizionato del compagno invece che ridarle la forza che ha perso, non fa che confonderla.
Ad aiutare Luce sono piuttosto le testimonianze di altre donne. Che riempiono il forum online dedicato a chi ha avuto esperienze simili a quella di Luce: le loro parole comprensive e intelligenti saranno le uniche a consolare la madre che Luce non è diventata. Sono loro a restituire a Luce la voglia di amare e di scrivere quella rubrica tanto amata dalle lettrici che per mesi ha abbandonato, e farlo con una voce «nuova, quasi timida, aggraziata». Scritto con simile compostezza è Nessuno sa di noi (Giunti, 256 pagine; 12 euro), terza prova di Simona Sparaco, scrittrice e sceneggiatrice romana. Un romanzo che lascia interdetti per il modo limpido e laico - nonostante la protagonista sia a suo modo credente - in cui l’autrice sa affrontare l’argomento tabù dell’aborto terapeutico. Nessuno sa di noi ha la struttura e il ritmo della love story, ma è anche e soprattutto un romanzo sul dolore.
LA CARNE
«L’unica cosa di cui sono davvero sicura, quando penso a mio figlio, è che mi manca la sua carne. Me ne rendo conto quando vedo un bambino piccolo. Soprattutto i piedi, i polpacci rotondi, le cosce». Dal dolore di Luce si guarisce, per fortuna, e la vita riprende il suo corso, mentre forse, sembra suggerirci l’autrice con la sua storia, mettere al mondo un bambino affetto da displasia scheletrica vuol dire creare un futuro di sofferenza inalterabile. Gli antichi romani dicevano: «Divinum opus est sedare dolorem». Poi il cristianesimo ha cambiato tutto, il dolore si è fatto privilegio inevitabile, come scrive Violadimare sul forum, e ancora oggi sembra che nel nostro paese non sia possibile, a volte, evitare le croci e le spine.
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