Non c'è stata istigazione al suicidio. La morte di Giovanna Pedretti non è legata ai post del blogger Lorenzo Bigiarelli, che smascherarono una recensione “non genuina” su Facebook, opera della stessa ristoratrice. Sono le conclusioni a cui è giunta la procura di Lodi, che ha chiesto l'archiviazione. Ma l'esito della vicenda non giustifica in nessun modo la sua rimozione dalla coscienza collettiva. Se così fosse, sarebbe una tragedia assurda, all'opposto riteniamo sia una tragedia emblematica.
Investe la responsabilità dei social e dei loro campioni, gli influencer. Riguarda soprattutto la sproporzione delle forze in campo, da una parte migliaia di follower, una piazza virtuale pronta a stringersi a coorte, dall'altra un cittadino come tanti altri, oggettivamente incapace di reggere l'urto del tribunale del popolo. Da una parte la libertà di parola, dall'altra la libertà di sbagliare - anche smaccatamente, ad esempio inventarsi un caso di discriminazione per fare pubblicità al proprio locale. Nessuno può ergersi a giudice della fragilità altrui o di un momento di debolezza.
Ora qualcosa si sta muovendo, sulla scorta del pandoro-gate. L'Agcom ha stabilito che gli influencer dovranno sottostare alle regole previste per i media audiovisivi, mettendo in cantiere un decalogo, il governo ha sfornato un decreto Ferragni, a suo modo un decreto brandizzato. Una stretta non si nega a nessuno, persino alle potentissime big tech che sinora si sono dimostrate piuttosto riluttanti a regolamentare i contenuti social, se non maldestre negli esiti della logica algoritmica (pensiamo alla censura dei nudi storici, rispetto alle schifezze che passano quotidianamente). Tutelare i consumatori rispetto alle pubblicità ingannevoli è sacrosanto, scovare gli evasori doveroso, proteggere i minori fondamentale. Ma forse servirebbe un decreto Pedretti, che tracci un limite tra denuncia e gogna, tra influencer e polizia morale. Insomma, un'Authority per i nostri passi falsi.