Sironi, il colore pessimista

Sironi, il colore pessimista
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Martedì 30 Settembre 2014, 06:21
LA MOSTRA
Tre sono i punti di forza della mostra che dal prossimo 4 ottobre al 28 febbraio il Vittoriano dedica a Mario Sironi(1885-1961), uno dei più grandi maestri del Novecento non solo italiano. Il primo è quello di non aver puntato sulla riproposizione dei capolavori più osannati e riconoscibili, ma di aver ricomposto con le oltre ottanta opere sgranate lungo il percorso un panorama che abbraccia tutte le fasi della sua carriera. A partire dagli esordi influenzati dalle atmosfere simboliste che dominavano la Milano inizio secolo in cui sboccia e matura il suo talento: una scoperta per molti quella Marina datata 1900 o quei paesaggi di due anni dopo, Il pascolo e La chiesa sul Ghisallo, con quei colori pastosi così diversi dalla tavolozza di grigi e di terre con cui dagli anni venti inizierà a scolpire l'ombra tragica e dolente delle periferie urbane, con quel senso di tempo sospeso, di attesa, di mistero così intimi, pregni d'interiorità.
VOCABOLARIO
Mario Sironi, come dimostra il volto serio e accigliato di uno dei suoi primi autoritratti, è un pittore che sta costruendo il suo vocabolario, ma ha già messo a fuoco l'ambizione di imprimere una scossa, cambiare lo sguardo della società sonnolenta in cui vive, e sente, forse non sa ancora con certezza, che il suo io tormentato, persino la depressione di cui soffre e l'ha costretto ad abbandonare gli studi universitari, saranno sempre compagni di strada, guardiani e complici del suo cammino.
La svolta che lo proietta all'esterno coincide con la sua adesione al futurismo, tutt'altro che marginale perché lo accompagna per quasi un decennio, nuove amicizie, mostre, manifestazioni, proclami, quadri che lo avvicinano alle soluzioni stilistiche di Boccioni come La testa del 1913, o di Severini come La Ballerina o Il bevitore del 1915. Ma è il futurismo di un eretico. Che congela nella geometrizzazione e moltiplicazione dei piani il movimento: il tram, il camion giallo, lo svincolo d'autostrada esposti qui in mostra rifiutano i vortici, le prospettive vertiginose della città che sale, restano immobili come scenografie di teatro
IL FUTURO
Sì, il futuro, ci ammonisce Sironi, ci riserva anche questo, non solo ebbrezze di velocità e di volo. Il transito attraverso una breve stagione metafisica e un repertorio di figure ridotte a manichini prepara la decisiva avventura di Novecento, movimento cui da vita con un gruppo di altri sei pittori di minor peso che rivendicano un ancoraggio più solido con l'arte classica, l'esaltazione della plasticità dei volumi come chiave d'accesso a una nuova modernità, nutrita di principi forti, tesa a disegnare i modelli di un'umanità che sulla scia della filosofia platonica lancia la sua sfida di progresso all'universo di fantasmi, convenzioni, apparenze che lo circonda. L'immaginario di Sironi traduce questo sogno in un campionario di figure esemplari: l'architetto accanto al pescivendolo, al contadino che tira l'aratro, al lavoratore più umile perché l'impresa di rifondazione coinvolge tutti. Una sfida dura che Sironi dipinge da pessimista, con un registro di colori sempre più ridotto, tra fondali e scenari che parlano di solitudine, sforzo continuo, malinconia.
A affiancarlo, stimolarlo, ispirarlo, proteggerlo a volte dal rischio della depressione sempre in agguato, in questa strada così complessa, una figura d'eccezione: la giornalista Margherita Sarfatti. E' lei a fargli conoscere Mussolini, a difenderlo dall'ottusità di altri gerarchi del regime. Il secondo grande merito di questa mostra del Vittoriano è l'aver messo a fuoco con particolare attenzione questo rapporto di amicizia e condivisione: un'antologia di lettere che i due si scambiano è tra le chicche più stimolanti offerte al visitatore.
La terza calamita di questa rivisitazione, curata con grande rigore da Elena Pontiggia, è l'aver dato ampio risalto alla produzione di opere monumentali che caratterizza la produzione di Sironi dagli anni Trenta alla Guerra, e che, per via della sua adesione al fascismo, per molto tempo la critica ha svalutato o malvalutato. Niente più pittura da cavalletto, ma solo mosaici, affreschi, vetrate, allestimenti, scenografie. Riproposti in mostra attraverso cartoni e bozzetti; tra i più fascinosi gli studi per le grandi opere eseguite a Roma: l'Università, il ministero del Lavoro, la casa dei mutilati. Il pittore si trasforma in architetto e demiurgo, inseguendo nelle sue opere, l'esaltazione di un mondo di idee e allegorie imperiture: la Giustizia, il Lavoro, la Pace sociale. Sironi crede davvero che il fascismo possa avvicinare questi traguardi, e rimane fedele al regime fino all'ultimo. Rischiando persino la vita: a Milano un gruppo di partigiani vorrebbe fucilarlo, lo salva l'intervento del comandante, Gianni Rodari, un estimatore dei suoi quadri. Il dopoguerra è per Sironi un periodo di espiazione e di amarezza. Continuerà a dipingere fino alla morte paesaggi sempre più cupi, metafore sempre più criptiche specchi d'un mondo che gli si è sfaldato dentro.
Danilo Maestosi
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