Milena Vukotic: «Da Federico Fellini a Luis Buñuel la mia vita da sogno»

Milena Vukotic: «Da Federico Fellini a Luis Buñuel la mia vita da sogno»
di Simona Antonucci
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Domenica 18 Febbraio 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 20:45
I grandi incontri, sì, quelli che ti segnano la vita, non per forza devono essere con l’altro sesso. Con l’uomo o con la donna con cui poi ti accompagnerai. Possono capitare, con un’amica, un amico, un figlio. Il mio è stato con mia madre. Una simbiosi naturale, spontanea, che mi ha arricchito per sempre». Milena Vukotic, 82 anni, in tour da mesi con Le sorelle Materassi, raffinata e sensibile signora della scena italiana e internazionale, riservata nonostante abbia vissuto sotto i riflettori sin da bambina, toglie qualche velo alla sua timidezza e racconta: «Sin da piccola, ero l’ultima di quattro fratelli, si capiva che io e mamma eravamo, l’una per l’altra, un punto focale indistruttibile. E ricordo che papà mi prendeva in giro. Ho fatto la mia vita, girato il mondo per lavoro, mi sono sposata con un uomo straordinario, ho avuto scambi profondissimi con persone che hanno scritto la storia dello spettacolo. Certo. Ma il rapporto così viscerale con lei lo considero ancora il grande premio».

Perché una donna discreta come lei sceglie una carriera sulla ribalta?
«Essere un’attrice mi consente di mettere una maschera. E di stare dietro a un velo. È vero che ho sempre avuto difficoltà a espormi. Ma quando interpreto un ruolo me ne dimentico. Mi confondo in un personaggio e comincio a fantasticare liberamente. Non sarà un caso che in molte lingue straniere per dire recitare e giocare si usa la stessa parola».

Per diventare Pina, la moglie di Fantozzi, ha dovuto mettere una maschera enorme dietro cui nascondere la femminilità. Non è da tutte.
«Paolo Villaggio mi chiamò e mi disse: “Immagina un cartone animato”. E così fu. Ho messo da parte ogni velleità non dico di bellezza, ma di apparire almeno piacente, e sono diventata una caricatura. Ho fatto parte per un bel po’ di una famiglia grottesca, squinternata».

Se n’è mai pentita, non si è mai sentita schiava della signora Pina?
«No. In molti mi dicevano che avrei meritato di più, ma io a Paolo devo moltissimo. E siamo sempre rimasti legati. Ci siamo scambiati visite. Gli auguri a Natale. Non frequentissimi contatti, ma quel poco era forte. Il fatto che non ci sia più per me è una mancanza».

Lei non ha cominciato mettendo maschere, ma indossando un tutù da ballerina. Che cosa le è rimasto di quel mondo?
«La danza è la base della mia crescita e del mio amore per lo spettacolo. E mi ha insegnato a vivere. Con le scarpette ai piedi non si può barare. A teatro, recitando, in qualche modo riesci a cavartela. Sulle punte di gesso no. Dalla preparazione tecnica non si può prescindere. Lo stesso vale per un pianista. Ore e ore di lezioni e di prove ti formano in un modo diverso. Mi considero avvantaggiata rispetto a molti miei colleghi».

Lei è una figlia d’arte: che dote creativa le ha lasciato la sua famiglia?
«Mamma era una pianista e compositrice, fu allieva di Respighi. Papà scrisse per il teatro, il teatro futurista, era un uomo di lettere anche se poi sviluppò questa sua sensibilità in un altro tipo di carriera, quella diplomatica. Ho vissuto tra Londra, Vienna, poi in Olanda e a Istanbul e soprattutto a Parigi che fu la mia città formativa. Coincise con la separazione dei miei genitori e con il mio ingresso all’Opera. Un periodo di formazione fondamentale. Sotto tanti punti di vista».

Incontrò anche Roland Petit.
«Mio padre se n’era andato, non fu un grave trauma. Ma ero giovane, un po’ turbata. Mia madre aveva il suo lavoro e riusciva a provvedere a tutto. Dopo il saggio al Conservatorio, entrai all’Opera. Per sei mesi lavorai con Roland Petit e poi, avendo bisogno di guadagnare, entrai nella compagnia del maestro de Cuevas che era succeduta ai balletti russi di Diaghilev. Persino Nureyev, purtroppo quando ero andata già via, ne prese parte. Un’avventura straordinaria. Ma contemporaneamente, quando non ero in tournée, seguivo corsi d’arte drammatica. Il teatro ha sempre fatto capolino nel mio cuore».

Il bivio?
«A Roma. Un giorno vidi un film di Fellini, La strada. E mi si aprì la strada del sogno. Del desiderio di dare più spazio ai miei studi e a un’ipotesi di cambiamento. Mollai tutto e arrivai a Roma con lo scopo di incontrare Fellini. Mia madre si era già trasferita nella Capitale. Feci un concorso alla Rai, ricominciai a frequentare corsi di recitazione. I primi passi con il Gian Burrasca di Lina Wertmüller, nel ‘64, la compagnia di Morelli e Stoppa. E finalmente, una lettera di presentazione per varcare la soglia del grande regista. Che rimase in tasca perché Federico fu subito amabile. Chiamò un fotografo che scattò una specie di segnaletica e cominciò un rapporto di lavoro, ma soprattutto un’amicizia».

L’incontro con Buñuel.
«Magico. Ma in un altro modo. Fellini mi ha rivelato qualcosa che doveva ancora aprirsi, dentro di me. Buñuel era un uomo di grande sentimento, molto piacevole. Vederlo significava tornare a Parigi e quindi una grande festa. Anche se Roma mi è così cara. Adoro il mio quartiere - tra Parioli e Trieste - così pieno di contrasti, popolare e borghese».

L’amore ha mai deviato il corso della sua carriera?
«No, non è mai successo. Mia madre per prima e poi mio marito non mi hanno mai chiesto di fare rinunce».

Si considera una donna passionale?
«Dipende quale significato si dà a questa espressione. Per il nostro lavoro, la passione è necessaria».

Lei ha girato decine di film e ha portato a teatro i più grandi autori. Le resta un rimpianto? 
«Forse avrei voluto fare più cinema. Ma per come è cominciata è andata sin troppo bene. Le racconto questa storia che ora mi fa sorridere, ma allora... Ero giovanissima e piena di sogni. Un’amica mi diede una lettera per incontrare Renato Castellani. Mi ricevette. E mi chiese: “Lei che cosa vuole fare?”. E aggiunse: “Per sfondare nel cinema bisogna essere belli”. Dando per scontato che io non rientrassi in quella categoria, sentenziò: “Oppure avere una grande personalità, e quindi...”. Ci rimasi veramente male. Ma anni dopo la rivincita. Mi chiamò per il suo sceneggiato su Verdi. Io non gli ricordai nulla e lui sorvolò. Nel frattempo, nonostante la sua bocciatura, qualcosa l’avevo fatta. Mai mollare».

Senza paura.
«Mai. Se c’è qualcosa dentro alla fine viene fuori. Sbagliano le ragazze che sottostanno ad abusi e molestie per timore di essere fatte fuori dal giro. Denunciare è giusto. Ma ancora più giusto è andare dritte per la propria strada».

Un coraggio guadagnato con l’età?
«No».

Che cosa le ha tolto e che cosa le ha regalato l’età?
«Ho un’energia di cui mi stupisco. E ancora una grande passione».
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