Gerusalemme, la sfida a Trump dei Paesi islamici

di Fabio Nicolucci
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Giovedì 14 Dicembre 2017, 00:05
Il summit straordinario dell’Organizzazione della Cooperazione islamica (Oci) sulle dichiarazioni di Trump su Gerusalemme non ha riservato sorprese. Il vertice non è infatti fallito ed ha emesso un comunicato finale; ma non ha parimenti prodotto alcuno scatto diplomatico dopo le recenti proteste in ordine sparso dei suoi membri per la decisione unilaterale dell’amministrazione Trump di cancellare la sospensione del Jerusalem Embassy Act del 1995, che dava mandato - se applicato - di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. 

In questa commedia degli equivoci che sta diventando la questione dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, dove tutti fanno cose che non dicono e dicono cose che non pensano, il vertice di Istanbul può essere rubricato a successo personale di Erdogan più che un segno della forza collettiva vitale di un’entità superata dalla storia. Erdogan ha infatti deciso di usare questa vicenda per acquisire potere negoziale su ben altri dossier – i curdi in primis, e poi la Siria – e per questo usa parole non diplomatiche bensì di propaganda islamista contro la decisione americana. Come la definizione di Israele come Stato “terrorista” fatte irresponsabilmente in apertura della conferenza. Non ci sorprenderemmo che possa, se ottiene concessioni sugli altri dossier, improvvisamente dimenticare tali toni e abbracciare il pragmatismo politico.

In ogni caso, convocando un vertice così a stretto giro ha fatto una scommessa, perché il vertice poteva anche fallire tra le divisioni. Solo 18 dei 57 Paesi hanno inviato un capo di Stato, e spiccava l’assenza del re Saudita Salman, malgrado l’Oci sia diretta proprio da un saudita dal 2014. Del resto l’Oci è un’organizzazione nata in tutt’altra fase storica. Nasce infatti nel 1969, al culmine della fase di decolonizzazione e del movimento dei non allineati, per offrire una sponda negoziale più forte a Paesi islamici che però volevano una camera di rappresentanza specifica nel gioco per taglie forti che era la Guerra Fredda e il bipolarismo. Del resto, molti di questi Stati, come per esempio la Turchia con la Nato, avevano il piede anche in altre più comode scarpe. 
Oggi l’Oci non può offrire ai suoi membri altro che - e solo in circostanze eccezionali - un minimo comune denominatore da utilizzare poi come leva negoziale in altre sedi e con altri mezzi. E non può essere altrimenti per un’organizzazione di cui molti membri sono Stati solo di nome, oppure divorati da guerre civili o regionali, con una struttura statuale o fatta a pezzi o inesistente sin dall’inizio. Il comunicato finale esprime dunque null’altro che questo minimo comune denominatore, che è poi la proposta di pace saudita fatta nel 2002 come Lega Araba, e lasciata colpevolmente da allora senza risposta dai governi Netanyahu. Sgarbo che la proposta di Trump su Gerusalemme ricorda e riporta alla luce, a scorno degli orgogliosi sauditi. E che dunque depone contro l’esistenza di un supposto asse nascosto tra Trump e Arabia Saudita su questo annuncio-decisione. 

L’unico dato di novità è paradossalmente contenuto quindi dall’intervento di Abbas, che ha minacciosamente prospettato di intraprendere la via del riconoscimento pieno da parte dell’Onu dello Stato di Palestina, anche prima di poterlo ottenere in negoziati diretti con Israele. La minaccia è ad Israele, ed è disperata ma concreta. Una minaccia giustamente temuta dagli apparati di sicurezza e dai professionisti che tutelano la vita di Israele come Stato ebraico e democratico. Perché se i palestinesi rinunciano a costruire lo Stato per via negoziale bilaterale, hanno due strade. Egualmente perniciose per Israele. 

La prima è quella internazionale, appellandosi all’Onu. Una strada sbagliata – e abbiamo visto cosa successe all’Unesco - perché concettualmente presuppone il torto di Israele e la ragione dei palestinesi. Mentre qui si tratta di accordare due ragioni: l’esistenza e quindi sicurezza di Israele, e uno Stato per i palestinesi. Essendo sbagliata, tale strada alla fine sarà infruttuosa. Però prima avrà avuto modo di fare danni, isolando Israele da Paesi da cui non è necessario sia isolato, e soprattutto da gran parte delle opinioni pubbliche occidentali e non solo. Esaurita questa strada, i palestinesi si troveranno poi giocoforza a percorrere l’altra, quella della rinuncia al loro Stato, per chiedere poi l’adesione allo Stato già esistente. Cioè Israele. Minacciandone il carattere ebraico oppure quello democratico, qualora essi abbiano diritti di voto oppure no. La mossa di Trump, fatta in questo modo, avvicina questo scenario. Ecco perché è pericolosa, in primis per Israele.
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