Come l’hanno presa in famiglia?
«Non bene. Anzi, direi proprio male: quando ho detto ai miei che mollavo ingegneria eravamo a cena, a mio padre è caduta dalle mani una bottiglia di vino... Poi abbiamo raggiunto un compromesso: a settembre mi iscriverò a lingue orientali, per il famoso “pezzo di carta”. Nel frattempo ho cominciato a seguire i corsi alla Scuola romana del fumetto. Per pagarmi gli studi faccio la cameriera in un pub, e una volta a settimana la segretaria in uno studio medico».
Come si fa a diventare fumettista?
«È molto difficile, devi essere bravo tecnicamente e dev’esserci qualcuno che ti supporta a livello economico, almeno all’inizio. Io ho cominciato a otto anni: disegnavo le Witch. Il mio sogno ora è quello di scrivere e disegnare interamente una storia per proporla a un editore. Un po’ come ha fatto Zerocalcare, che ha frequentato la mia stessa scuola e che all’inizio veniva criticato per i suoi disegni “infantili”. In ogni caso il disegno è solo l’ultima parte del lavoro».
In che senso?
«Prima c’è tutta la parte di definizione del personaggio, character design. Prendiamo un supereroe: bisogna stabilire chi è, la sua storia, quali sono le sue attrezzature e perché agisce così. Va definito prima nelle sue linee fondamentali, nelle sue espressioni facciali, che devono essere sempre le stesse. Io preferisco disegnare ragazzi, sono espressivi e buffi insieme. Poi c’è un enorme lavoro di ricostruzione del contesto in cui si svolge la storia. Insomma, tanto studio a tavolino».
In futuro a Roma o l’Oriente?
«Disegnare in Giappone sarebbe il massimo. Il problema è che è un mercato chiuso, generalmente devi essere giapponese per lavorare lì. È una cultura che adoro, ma non so se riuscirei a viverci: amo troppo Roma, la città più bella del mondo. Per quanto oggi sia tenuta male, vivere immersi nell’arte è qualcosa di unico al mondo. Sarà che ci sono cresciuta,ma è una continua scoperta».
Avvicinarsi oggi al mondo del lavoro non è facile per un ventenne. Come stai vivendo questo passaggio?
«Vuoi dire se mi chiedo cosa sto facendo della mia vita? (ride). A dire la verità pochi tra i miei amici sono riusciti a trovare un impiego appena laureati. Anche tra i miei ex compagni di ingegneria informatica il lavoro è percepito come un miracolo, perché mediamente per laurearsi ci vogliono molto più di tre anni, e uno finisce col concentrarsi solo sul presente. Pensare al futuro è giusto, però bisogna anche cercare di seguire la propria strada. Ne so qualcosa: a un certo punto ho capito che non volevo trovarmi a trent’anni seduta davanti a uno schermo a fare un lavoro ripetitivo. Facevo fatica a studiare, non dormivo, ero stressata. Studiavo più per soddisfare la mia famiglia che per me».
Ora che ha visto i tuoi disegni, papà si è convinto della tua scelta?
«Insomma... Continua a ripetermi “va beh, hai ancora tempo per pensarci”. Ma io ci ho già pensato».
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