Qual è la prossima sfida?
«Vorrei fare qualcosa per Roma, impegnarmi perché le persone nelle mie condizioni incontrino sempre meno ostacoli».
Ne avrai incontrati tanti, come li hai affrontati?
«Da piccola sono uscita da una paralisi totale. Dopo questo, cosa può sembrarmi impossibile? Io credo che quando ci viene tolto qualcosa, c'è una risorsa enorme dentro di noi che compensa. Bisogna trovarla. Non c'è niente di cui direi: questo non posso farlo e mi manca. Ma ci sono arrivata attraverso il dolore».
Una bambina questo non può capirlo.
«Mi sentivo diversa da bambina, ma in bene, anche se avevo due tutori alle gambe e il busto per la scoliosi. Eravamo poveri, nove figli, papà vendeva bruscolini al cinema, ma c'era allegria nella nostra casa. Dormivo nel letto con mia sorella, mi scaldava i piedi. Mia madre mi diceva: Lauretta lava i piatti, Lauretta bada alle tue sorelle. Mi facevano sentire come gli altri. Mio padre ha venduto la biancheria per portarmi a Lourdes. E quando mi sono sposata, a 20 anni, ha scritto una serenata per me: Lauretta mia, bimba adorata, la serenata te la canta papà....Sotto la finestra di casa, alla Garbatella, c'era una folla».
Quando hai cominciato a fare volontariato?
«Il mio sogno era fare la crocerossina. Al centro di riabilitazione Nido verde Lyda Cini, dove ho passato la mia infanzia, arrivavano queste donne vestite di bianco. Io le ammiravo. Le mie bambole le vestivo così. Poi a 28 anni mi sono ammalata di psoriasi artropatica. Durante i ricoveri di mesi, all'Ifo, ho cominciato a fare una specie di volontariato: aiutavo i vecchietti, facevo il pedicure alle signore, tenevo compagnia a chi era solo. Anni dopo ho anche lavorato per quell'ospedale, ho assistito per mesi 2 bambini etiopi con il melanoma. Li tenevo sulle mie gambe in carrozzina. Nel 2005 a Firenze mi hanno consegnato la divisa della Croce Rossa».
Continui a occuparti degli altri?
«Sì, certo, anche senza una divisa. Vado a Termini, con la mia sedia a rotelle, e sto con i clochard: porto vestiti, cibo, li ascolto, gli sorrido. A volte basta questo, ho tanti amici lì».
Riesci a muoverti da sola in carrozzina a Roma?
«Fatico molto, ma ci provo sempre. Quante volte resto bloccata nella metro B perché gli ascensori sono rotti. Ma l'importante per me è lottare e non fare arrivare il messaggio: poveri disabili... Questo ripeto ai ragazzi quando vado nelle scuole a parlare di questi temi: bisogna ribellarsi alla vita».
Anche i lanci con il paracadute. Non rischi troppo?
«Era il mio sogno. La prima volta mi sono lanciata a Fano, dieci anni fa: 3mila metri in caduta libera. Appena sono scesa ho chiesto di risalire. Ma adesso sono un poco più debole, devo rallentare. Una gamba è piccola come quella di un bimbo, ma io la imbottisco con i pigiami. La mia femminilità prevale sempre. E la mia testa per fortuna continua a ribellarsi».
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