L'immunologo Jean-Claude Weill: «Virus imprevedibili ma possiamo difenderci con la diversità nella ricerca»

Uno dei più importanti biologi e immunologi della Francia nel suo libro “Elogio dell’imprevisto” svela i segreti delle scoperte scientifiche: «Si fanno solo in squadra, gli sbagli sono la parte principale del lavoro»

L'immunologo Jean-Claude Weill: «Virus imprevedibili ma possiamo difenderci con la diversità nella ricerca»
di Francesca Pierantozzi
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Giovedì 11 Gennaio 2024, 07:25 - Ultimo aggiornamento: 07:36

Jean-Claude Weill è uno dei più importanti biologi e immunologi di Francia, è membro dell’Accademia delle Scienze e ha ricevuto il prestigioso Prix d’Honneur dell’Inserm «alla carriera».

Amico di Nobel (almeno una decina) ha lavorato in America e in Svizzera. Fisico scattante, capigliatura leonina, va tutti i giorni in laboratorio: a 81 anni si considera ancora «un debuttante». Poco importa che siano passati 40 anni dalla sua scoperta più importante: i meccanismi molecolari di diversificazione delle cellule alla base dell’immunità adattativa. Il segreto era custodito nella borsa di Fabrizio, la parte finale dell’intestino dei polli. Racconta divertito: «Mi dicevano: Jean-Claude, ma chi te lo fa fare, che ti frega dei polli?». E invece proprio qualche mese fa è stato pubblicato uno studio che rivela che circa il 20 per cento degli anticorpi anche nell’uomo usa meccanismi simili a quelli riscontrati nei polli: è il modo migliore per lottare contro i batteri più patogeni, come quelli dello Pneumococco o del Meningococco. Ma non è per parlare di polli, linfociti e batteri che il professor Weill ha deciso di scrivere il suo ultimo libro. In Eloge de l’imprévu (Elogio dell’imprevisto, appena pubblicato in Francia per le edizioni Bélin) Weill ha voluto soprattutto raccontare la sua storia - quella di un ex dentista, amante dei locali notturni, marito felice di una ex modella, diventato ricercatore a 40 anni - e dichiarare il suo amore per la ricerca scientifica: «Le scoperte più importanti degli ultimi cinquant’anni - scrive - sono state fatte da ricercatori outsider, eccentrici, che si sono lanciati nella ricerca come fosse un’avventura, senza paura di rischiare e soprattutto di sbagliare. Perché sappiatelo, i ricercatori più grandi sono quelli che sbagliano. A volte sempre». 

Professor Weill, non le pare di aver scelto il momento sbagliato per elogiare l’imprevisto? A guardarsi intorno nel mondo, qualche certezza e previsione azzeccata in più forse sarebbero salutari… 
«Niels Bohr, il padre della fisica quantistica, amava dire che ogni previsione è difficile, soprattutto se riguarda il futuro. Possiamo forse sapere quali polveri alzerà la prossima asteroide che cadrà sulla terra? Oppure quale sarà la prossima pandemia? O il prossimo virus, il prossimo batterio? Nessuno scienziato può prevedere il futuro. Il sistema migliore per far fronte all’imprevisto, come ci insegnano anche i sistemi immunitari, è la diversità. Se non puoi prevedere il virus, ti organizzi per avere 5 milioni di “braccia” diverse. Le possibilità che ce ne sia una che funzioni sono alte. Non puoi prevedere, ma puoi produrre diversità». 

Il suo libro è ricco di esempi di scienziati - quasi tutti Nobel - e scoperte il cui percorso è stato accidentato, per non dire casuale, oppure atipico. Come Kary Mullis, scopritore della Polymerase Chain Reaction, all’origine degli ormai mondialmente noti test PCR, surfista consumatore di LSD. O la chemioterapia, scoperta per caso dopo un bombardamento di una nave alleata piena di gas mostarda nel golfo di Bari… 
«La verità è che sul piano della ricerca scientifica non puoi assolutamente prevedere chi farà quella scoperta. Non è perché sei il primo della classe, il più bravo al Politecnico, o alla Normale, che sarai tu. Se funzionasse così avremmo già risolto tutti i nostri problemi e trovato i rimedi al Parkinson, all’Alzheimer: diamo 200 milioni di dollari ai più bravi e ci vediamo tra cinque anni con la soluzione. Anche qui: bisogna coltivare la diversità. Servono anche i primi della classe, naturalmente, servono tutti, serve la diversità umana». 

Lei continua a lavorare, quale atmosfera si respira oggi nei laboratori? 
«Purtroppo i percorsi atipici sono meno frequenti. Si chiede troppo spesso ai giovani ricercatori di entrare in uno stampo, di formattarsi. Mi sono fatto un’idea del problema…».

Qual è? 
«L’evoluzione degli esseri umani ha funzionato in modo squilibrato. C’è un gap enorme tra il livello delle conoscenze cognitive in tutti i campi - fisica, chimica, biologia, terapia genica - e l’evoluzione dei comportamenti: da questo punto di vista gli umani sono praticamente restati fermi a Neanderthal, hanno gli stessi desideri, passioni gelosie, rivalità, non si sono evoluti. Questo gap tra conoscenze e comportamento è fonte di totale infelicità. 65 milioni di anni fa un asteroide di 12 chilometri di diametro cadde in Messico, sollevando polveri di zolfo e silicati: scomparve il 75 per cento della vita sulla terra. Oggi mi dico che un’altra esplosione simile è ineluttabile, visto questo scarto insostenibile tra conoscenze tecniche e comportamenti umani. Spero che quando l’evoluzione ricomincerà, avremo un evoluzione parallela tra comportamenti e tecnica. Vado un po’ troppo lontano?» 

Ecco: come facciamo a distinguere lo scienziato geniale dallo scienziato pazzo? Con il Covid abbiamo visto proliferare fake news che potevano sembrare vere. 
«Alla base di tutto c’è sempre il rispetto del rigore del scientifico. E il rigore scientifico si protegge mettendo i propri lavori al vaglio della comunità scientifica. La scienza è un lavoro di squadra. Se hai un’idea, emetti un’ipotesi, hai un’intuizione, devi andare alla lavagna e mostrarla alla tua squadra. Se non funziona, tempo massimo un’ora ci sarà qualcuno che alza la mano per dirti che stai sbagliando». 

È per questo che vorrebbe riformare il Nobel? 
«Sì. Non c’è scoperta che non sia collettiva, che non sia la somma di tante scoperte. Il Nobel premia al massimo tre scienziati, così ha voluto Alfred, ma questo non è mai giusto. Bisognerebbe dare il premio alla scoperta e non allo scopritore. Premiare tutti quelli, morti e vivi, che vi hanno contribuito, e sono sempre tanti, di sicuro più di tre». 

Nel libro lei elenca quasi con più soddisfazione i suoi fallimenti che i successi. Non le sembra di esagerare?
«Sbagliare è la parte più importante del lavoro di ricerca. La qualità più importante del ricercatore non è l’intelligenza, quella la do per scontato, come la patente di guida per il pilota di Formula Uno: la qualità più importante è la resistenza al fallimento. Il gusto del rischio e la capacità di incassare la sconfitta. Fare ricerca significa scegliere di aprire una scatola: nel 98 per cento dei casi scopriremo che dentro quella scatola non c’è niente. Quella è la scienza. Il sistema dovrebbe sostenere di più chi sbaglia, e invece pretende troppo i risultati, basa tutto sulle pubblicazioni. Dobbiamo proteggere l’intuito, è il nostro bene più prezioso».
 

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