Eni-Nigeria, tutti assolti: «Non ci furono tangenti»

"Caso Nigeria": assolti Descalzi, Scaroni, Eni e Shell. I giudici: «Il fatto non sussiste»
di Claudia Guasco
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Mercoledì 17 Marzo 2021, 18:14 - Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 07:25

Tutti assolti «perché il fatto non sussiste». Si è concluso così, dopo poco più di tre anni, il processo di primo grado per corruzione internazionale che ha visto imputate le società Eni e Shell e altre tredici persone per una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari che sarebbe stata versata dalle due compagnie petrolifere ad alcuni politici della Nigeria per ottenere la concessione del blocco Opl245 al largo delle coste del Paese africano.

«La più grande tangente pagata da una compagnia italiana», sosteneva la Procura di Milano. Ora si scopre che quella super mazzetta non è mai esistita. I giudici della settima sezione penale del Tribunale di Milano, presieduta da Marco Tremolada, hanno smontato l'impianto accusatorio con una sentenza arrivata dopo quasi sei ore di camera di consiglio. Dunque, per aggiudicarsi i diritti di esplorazione del giacimento africano, non c'è stato alcun pagamento illecito.

«Reputazione restituita»

Assolti l'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, l'ex ministro del petrolio della Nigeria, Dan Etete, oltre a quattro ex manager di Shell, ex dirigenti di Eni e alcuni intermediari. Fra questi Roberto Casula, ex capo divisione esplorazioni di Eni, Vincenzo Armanna, ex vicepresidente di Eni Nigeria, Ciro Antonio Pagano, all'epoca dei fatti managing director di Nae, Emeka Obi, avvocato che avrebbe fatto da intermediario nell'operazione, e Luigi Bisignani, anch'egli considerato mediatore. L'accusa aveva chiesto 8 anni di carcere per Scaroni e Descalzi e 10 anni per Etete. «Finalmente a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda», afferma l'avvocato Paola Severino, difensore dell'ad della compagnia petrolifera. «Dopo decine di udienze, migliaia di documenti esaminati, finalmente una sentenza restituisce a Descalzi intatta la sua reputazione di manager e all'Eni il suo ruolo di grande azienda italiana, di cui siamo tutti orgogliosi».

L'accusa contro Shell ed Eni si basava sulle dichiarazioni dell'imputato Vincenzo Armanna, dirigente Eni licenziato nel 2013: Armanna ha raccontato della presunta retrocessione di 50 milioni di dollari ad alti dirigenti Eni sulla base di quanto gli avrebbe riferito l'ufficiale dei servizi di sicurezza nigeriani, Victor Nwafor.

Il quale però, ascoltato dal Tribunale, ha detto di non aver mai visto Armanna. Che identifica quindi altri due Victor come la sua vera fonte: per il secondo i giudici non accolgono la richiesta di convocazione in aula, si presenta il terzo Victor che di nuovo smentisce Armanna. Così l'accusa arriva alla fine del dibattimento senza testimonianze decisive né riscontri: i sequestri, le perquisizioni e le rogatorie non hanno dimostrato la versione di Armanna.


Specchio olandese

«È un risultato di grande civiltà giuridica», riflette Nerio Diodà, legale del gruppo petrolifero. «Per me, che rappresento Eni, i suoi circa tremila dipendenti e un centinaio di società in giro per il mondo è un onore poter dire che è estranea a qualsiasi illecito penale e amministrativo. Ci sono voluti anni, impegni, confronti anche duri, ma l'esito è da considerare una garanzia di giustizia equilibrata per tutti i cittadini». Aggiunge Enrico de Castiglione, difensore di Scaroni: «Speriamo di aver finito questo calvario, perché il mio assistito è sotto processo da dodici anni ed è stato assolto in tutti i gradi di giudizio con formula piena», così come Eni, «per il caso di presunta corruzione internazionale Saipem-Algeria».

Nel processo Eni Nigeria le difese hanno sostenuto che il contratto è stato firmato con il governo africano e che i soldi sono stati versati su un conto bancario di Londra intestato all'esecutivo della Nigeria: «La Procura ha dato un'immagine distorta dell'assegnazione del blocco petrolifero», ha spiegato nella sua arringa l'avvocato Paola Severino. «Le circostanze suggestive» di cui dispongono i pm «non hanno neanche il rango di indizio», ha rilevato. «Visto che i pm definiscono le mail di Shell lo specchio olandese, ricordo allora che nella pittura fiamminga lo specchio olandese era appunto lo specchio deformante».
 

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