Affile/ Condannati per il sacrario a Graziani, ma la storia non si scrive con il codice

di Carlo Nordio
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Mercoledì 8 Novembre 2017, 00:09
Il Tribunale di Tivoli ha condannato il sindaco di Affile e due assessori per apologia di fascismo, a causa del monumento eretto al Maresciallo Rodolfo Graziani. La pena è stata abbastanza mite.

Una condanna di pochi mesi di reclusione. La Procura aveva chiesto due anni, ed ha annunciato che farà appello. 

Noi abbiamo rievocato qualche mese fa su queste pagine il processo a Graziani, imputato di crimini di guerra, deportazioni, rappresaglie antipartigiane e altro. Abbiamo criticato l’indulgenza della sua condanna, e ancor più la sua immediata scarcerazione. Il Maresciallo infatti non si limitò a eseguire gli ordini: di sua iniziativa sterminò migliaia di innocenti in Libia e in Abissinia. La sua spregiudicatezza fu pari alla sua incompetenza. Nel 1940, in Cirenaica, perse quasi 200 mila uomini davanti alle forze, enormemente inferiori, degli inglesi di O’Connor. Persino il suo avvocato, il mitico professor Carnelutti, come unica difesa invocò la misericordia del Vangelo.

Detto questo, veniamo al processo odierno contro gli amministratori di Affile. Ci sarà un giudizio di secondo grado, poi la Cassazione, e forse l’inevitabile prescrizione. Se questa è la legge, legge sia. Ma la maestà della legge e l’autorità delle sentenze, non possono nascondere, né mitigare, le contraddizioni di una simile vicenda e le perplessità che ne derivano. E questo per almeno tre ragioni.

Primo. Il reato di apologia di fascismo è stato ed è, come tutti i reati di opinione, oggetto di critiche di molti giuristi delle più diverse estrazioni ideologiche. L’uso della forza per battere le idee è sempre improprio e generalmente inutile. Per di più è politicamente insidioso: non solo perché suscita reazioni vittimistiche, ma soprattutto perché esprime una sostanziale incapacità argomentativa, e quindi una sottostante debolezza ideale e culturale. Se non sei in grado di convincere, e ripieghi sulle manette, significa che non hai imparato la lezione di Voltaire e di Croce: “Non ho le tue idee, ma lotterò sempre perché tu le possa sostenere”.

Secondo. Il concetto che un monumento possa incarnare un’apologia è quantomeno stravagante. L’Europa pullula di dedicazioni, lapidi, statue, sepolcri e cenotafi di personaggi che non furono meno indifferenti di Graziani all’incolumità del prossimo. Furono solo più bravi, e magari più fortunati. Il colonialismo europeo fece più morti delle due guerre mondiali messe assieme. Dei milioni di schiavi che i vascelli dei negrieri portarono nelle Americhe, meno di un quarto sopravvisse al viaggio infame. Crociate e “dragonnades” benedette dalla Chiesa sterminarono migliaia di civili imbelli. Stalin liquidò venti milioni di Russi, e molti italiani onorarono, e magari onorano ancora la memoria del macellaio. Potremmo continuare all’infinito. Eppure nessuno si sogna di svuotare lo “Statesman’s Corner” di Westminster, dove troneggiano Palmerston, Gladstone e Disraeli. Les Invalides , a Parigi, conservano ancora con riverenza il bastone di maresciallo di Pétain, condannato a morte per tradimento. Quanto alla gloriosa Armata Rossa, il fatto che nella sola Berlino abbia stuprato centomila donne tra cui varie monache ottantenni non è buon motivo per dannarne la memoria e rimuovere i blindati che ancor oggi ne rievocano l’ingresso trionfale nel Maggio del 45. La Storia non è solo magistra vitae. E’ affare più complesso di una norma penale. 

Terzo. Anche ammesso che si voglia ancora incriminare il fascismo, va detto che Graziani non ne fu nemmeno un emblema rappresentativo. Fu un soldato crudele e pasticcione, che accettò con riluttanza di servire sotto la repubblica di Salò. Poi ci mise del suo, per astio verso Badoglio e per ambizione personale. Ma identificarlo con vent’anni di storia patria è rendergli troppo onore. Gli amministratori di Affile dovrebbero essere mandati a scuola, non in galera; ma anche i magistrati dovrebbero studiare di più la nostra storia. E non solo. Dovrebbero leggere più attentamente il codice penale. Perché? Perché a pagina uno, in grassetto e a caratteri giganti, campeggia il nome, sapete di chi? Di Benito Mussolini. Questa è la contraddizione di cui scrivevo all’inizio. Anche se la legge Scelba e quelle analoghe - attuali e future - sono ovviamente successive alla promulgazione del codice , esse nondimeno si inseriscono nel sistema che questo codice regge e disciplina. 

Tutta l’impalcatura della parte generale, la struttura del reato e la determinazione della pena, le cause di giustificazione, l’imputabilità, insomma la radice sulla quale si innestano i singoli crimini, è frutto del fascistissimo codice Rocco, firmato nel 1930 dal capo dello Stato, Sua Maestà Vittorio Emanuele III e dal Capo del Governo, l’Eccellenza Benito Mussolini. Ogni volta che un giudice pronuncia una sentenza, lo fa sì in nome del popolo, ma applicando quel codice che, a rigore, dovrebbe schizzargli di mano. A meno che l’intera magistratura italiana, con un gesto di sapiente e rigorosa coerenza democratica, non decida di autodenunciarsi come manutengola della defunta dittatura.
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