Il divieto di burkini non riduce l’asservimento delle donne

di Alessandro Perissinotto
5 Minuti di Lettura
Giovedì 18 Agosto 2016, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 00:11
Il provvedimento preso da alcuni sindaci francesi per vietare l’uso del burkini sulle spiagge dei loro comuni anima le discussioni di questi giorni come se si trattasse di una novità assoluta. In realtà i cugini francesi arrivano con sette anni di ritardo rispetto alla “lungimiranza” dell’allora sindaco leghista di Varallo Sesia (VC), Gianluca Buonanno (deceduto nel giugno di quest’anno), che con un’ordinanza dell’agosto 2009 vietava l’uso del costume da bagno con copricapo lungo le sponde dei torrenti di Varallo. Il richiamo a quel precedente è utile per far emergere quel fondo di intolleranza che si nasconde dietro le ragioni di pubblica sicurezza addotte dai sindaci francesi.

Nel 2009 infatti, non esisteva né lo Stato Islamico, né una diffusa minaccia terroristica (a Varallo Sesia poi!) e nelle parole di Buonanno si coglieva tutto l’humus di razzismo che aveva fatto germogliare quel provvedimento: «Non ci inchiniamo rispettosi verso usanze e atteggiamenti che non sono proprie della nostra civiltà - diceva allora l’esponente della Lega - non dobbiamo per forza essere sempre tolleranti! Se questa decisione creerà qualche malumore, potranno scegliere di immergersi con il burkini nella loro vasca da bagno». Lo stesso livore anti-islamico si trova nell’intervista rilasciata da David Lisnard, sindaco di Cannes, a Nice Matin: «Ho preso questa decisione, assieme a tante altre, per garantire la sicurezza della mia città nel contesto dello stato d’emergenza. Non vietiamo il velo, o la kippa, o le croci, io vieto semplicemente un’uniforme che è il simbolo dell’estremismo islamico». Eppure, l’ordinanza, così come è stata accettata dalla Giustizia francese in nome della laicità non fa alcun riferimento specifico all’islam, ma vieta «una tenuta da spiaggia che ostenti un’appartenenza religiosa». Se un provvedimento simile venisse adottato anche in Italia significherebbe che le suore che accompagnano al mare i bambini dell’oratorio dovrebbero mettersi in bikini o, al più, dovrebbero portare il costume olimpionico, o magari differenziarsi a seconda dell’ordine: un due pezzi marrone scuro per le Clarisse, un intero azzurro per le Vincenziane… La verità è che le velature di casa nostra ci stanno bene e le velature d’importazione ci danno fastidio. Il burkini non è contro la legge, perché lascia scoperto il volto, non è anti-igienico, perché è fatto degli stessi tessuti dei nostri costumi da bagno: ogni pretesto razionale per interdirlo mostra tutti i suoi limiti. C’è però, tra le molte frasi pronunciate dai politici francesi a sostegno del divieto di burkini, una che suona molto ragionevole, l’ha detta Manuel Valls: «Il burkini è espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna». Questo è assolutamente vero e l’asservimento, contemplato anche in molti precetti dell’islam moderato, va combattuto. Ma vietare è davvero il modo migliore per favorire l’emancipazione della donna islamica?

Nel 2009, ispirato proprio dalla vicenda di Varallo Sesia, iniziai a scrivere un romanzo, che si trova ora in libreria con il titolo di Semina il vento, in cui una giovane francese laica si convertiva all’islam radicale e diventava terrorista proprio come reazione all’intolleranza. Per documentarmi parlai con molte donne islamiche e alcune mi dissero che per loro, cresciute nei paesi arabi, il mostrarsi in pubblico con costumi da bagno occidentali era fonte di grande imbarazzo perché andava contro quel senso del pudore che avevano interiorizzato fin da bambine. Noi sappiamo che non c’è nulla di più mutevole, socialmente e individualmente, del senso del pudore e che quando qualcosa di esterno viene a interferire con il nostro personale senso del pudore lo avvertiamo come una forma di violenza. Quello che io domando è: possiamo spogliare per decreto delle donne che desiderano rimanere vestite? E fino a che punto possiamo spogliarle? Io ho frequentato per molti anni le spiagge della Camargue, a poche decine di chilometri da quella di Cannes: lì ognuno prende il sole come vuole; vestito, in costume da bagno, o completamente nudo. E ho visto più volte delle signore italiane capitare per caso su quelle stesse spiagge e provare imbarazzo all’idea di togliersi il reggiseno o addirittura lo slip. E se qualcuno, per decreto, avesse imposto loro di denudarsi? In realtà, anche il divieto di indossare ciò che si vuole in spiaggia è frutto di “un’ideologia basata sull’asservimento della donna”. Negli anni ’60, mia madre, in Liguria, rischiò una multa per un bikini troppo succinto (in realtà, castissimo, a vederlo ora) e in quegli stessi anni il vescovo di Albenga chiedeva a gran voce l’intervento della pubblica sicurezza per impedire che sulle spiagge liguri si propagasse il germe immorale del due pezzi; oggi, al contrario, la polizia francese è incaricata di multare le donne troppo vestite.

La verità è che gli uomini di potere, primi ministri, sindaci, vescovi, ayatollah, padri e mariti, continuano a decidere quanti centimetri di stoffa deve avere addosso una donna per essere “decente”. Sono certo che se io, maschio, mi tuffo nelle acque della Costa Azzurra con i jeans, la dolcevita e un cappello da sci in testa nessuno mi dice niente, ma se una donna fa il bagno vestita, come minimo viene invitata ad immergersi nella vasca di casa sua.

Il divieto di indossare il burkini, in quanto intervento esterno e autoritario sulla donna, non serve a ridurne l’asservimento e la espone a un asservimento di segno opposto. Personalmente, sono contrario al burkini o al semplice velo (ma anche all’abito degli ordini monastici), ma se fossi certo che si tratta di una libera scelta non mi porrebbe troppi problemi. Per smontare l’ideologia di asservimento non si possono imporre “livelli minimi di nudità”, ma bisogna educare uomini e donne alla libertà di scelta, anche all’interno di un dialogo con l’islam. Il fatto è che in Francia, e forse anche in Italia, le istituzioni hanno preferito ignorare l’islam più moderno, quello che cerca, al pari del cristianesimo, la conciliazione con il mondo attuale, e hanno scelto di privilegiare gli interlocutori più potenti, cioè quelli moderati, ma non certo progressisti. I provvedimenti anti-burkini non mirano a mantenere l’ordine pubblico, ma a diffondere semi di odio in risposta a quelli che ci sono giunti dai terroristi. Se, nel 2011, il mio romanzo si è intitolato Semina il vento è perché avevo l’impressione che, scelleratamente, i politici seminassero il vento dell’odio senza pensare alla tempesta che avrebbero raccolto; oggi, quell’impressione è una certezza.

 
© RIPRODUZIONE RISERVATA