Nazionale sorde e l'inno nella lingua dei segni, Federica Bruni: «Anche così si abbattono le barriere»

L'atleta di Ortona ora gioca all'Officina del volley di Padova in B2 e, spiega, "utilizzo protesi e l’impianto cocleare in quando si tratta di competizione per udenti. Nei campionati per non udenti invece non si possono usare ausili, per cui di fatto siamo tutte nelle stesse condizioni e per certi versi riesco anche a essere più concentrata e serena"

Nazionale sorde e l'inno nella lingua dei segni, Federica Bruni: «Anche così si abbattono le barriere»
di Antonio Di Carlo
8 Minuti di Lettura
Sabato 11 Novembre 2023, 15:55 - Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 08:22

 Da piccola promessa a grande certezza del volley. Federica Bruni, 22 anni, libero abruzzese nel giro della nazionale di pallavolo femminile sorde da ben 9 anni ed oggi in forza nell’Officina del Volley di Padova in serie B2. L'inno nazionale “segnato”, con milioni di visualizzazioni, resterà sempre nel suo cuore come l'invio ricevuto dal presidente Mattarella. Con la maglia azzurra ha collezionato numerose medaglie su palcoscenici mondiali e continentali. Anche a livello individuale Federica Bruni di Ortona ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi, su tutti il premio come miglior giocatrice italiana all’europeo under 21 di volley per sorde nel 2016. Federica tiene l’asticella alta anche nella vita privata, dove grazie al proprio percorso di studi - è laureata in Scienze motorie - sogna di rimanere nel mondo dello sport e sta per iniziare un master in Riabilitazione. Questa estate è balzata su tutte le cronache la medaglia di bronzo ottenuta sia dalla nazionale femminile che maschile agli europei.

 Federica Bruni, come ha cominciato a giocare a pallavolo?

«Grazie a mio padre, che è un allenatore. Quando avevo cinque anni spesso lo seguivo e prima o dopo le sue partite mi mettevo a giocare con le altre bambine».

Da atleta qual è il primo ricordo che ha di questo sport?

«Il primo che mi viene in mente è legato a un torneo under 13 che si tenne ad Ancona. Giocavo con la squadra 
di Ortona allenata da mio padre ed arrivammo seconde fra tante squadre provenienti da tutta Italia. Salire sul podio nel palazzetto è stato bello»

Lei ha sempre detto di aver fatto della sua difficoltà uditiva una opportunità, come ha affrontato queste difficoltà?

«Nella fase della mia prima adolescenza è arrivata la chiamata della nazionale di pallavolo sorde che mi ha aiutata tanto a crescere e prendere consapevolezza della mia sordità e soprattutto che non ero l’unica ragazza sorda. Questo mi ha aiutato molto a superare le difficoltà che avevo».

Bruni lei gioca in competizioni per udenti e non udenti e ottiene grandi risultati in entrambe. Dalla sua prospettiva qual è la differenza nel giocare nei due contesti?

«La differenza principale è che nei campionati udenti uso la protesi e l’impianto cocleare, anche se comunque non sento al 100% e utilizzo quindi in parte l’udito, il che è un po' penalizzante per me. Nei campionati per non udenti invece non si possono usare ausili, per cui di fatto siamo tutte nelle stesse condizioni e per certi versi riesco anche ad essere più concentrata e serena.

Per far parte della nazionale sorde non si può prescindere dal fare un percorso parallelo nei campionati per udenti che ci permette di lavorare quotidianamente e giocare settimanalmente».

Cosa le ha dato la pallavolo?

«Mi ha dato modo di vivere una passione e mi ha insegnato a fare squadra. Ho imparato che se fai sacrifici alla fine possono arrivare tante gioie e puoi vivere tanti momenti indimenticabili. E poi la Nazionale mi ha dato modo 
di conoscere tante persone, confrontarmi con loro, girare il mondo».

Ci racconta il giorno della prima chiamata della nazionale? Aveva solo 13 anni.

«È stata una vera sorpresa. In quel torneo di Ancona venne a vedermi l’allora direttrice tecnica Loredana Bava con due giocatrici che erano già in nazionale: l’attuale capitana Ilaria Galbusera e Sara Batresi. Dopo la premiazione sono venute a parlarmi e pochi mesi dopo è arrivata la prima convocazione a un raduno».

Com’è stata quella prima volta in azzurro?

«Un po' complicato perché nella nazionale sorde si gioca senza protesi e impianto. Se non sei abituata all’inizio non è facile ma poi diventa tutto più semplice e ti senti anche a tuo agio». 

Nel 2015 è stata eletta miglior giocatrice italiana nel campionato europeo under 21. Cosa ha significato per lei?

«È stata la mia prima esperienza all’estero ed ero la più piccola del gruppo. Avevo anche da poco cambiato ruolo, da palleggiatrice a libero. Era tutto nuovo per me. Proprio perché ero la più piccola mi fecero fare anche da portabandiera dell’Italia alla cerimonia inaugurale. Che emozione».

Quel premio è stato per lei un trampolino di lancio a livello sportivo?

«Dopo quel torneo, insieme ad altre compagne dell’under 21 sono passata alla Nazionale seniores. Con alcune 
di loro ho condiviso il percorso dal 2017 a oggi che ci ha portato tante soddisfazioni e medaglie internazionali. Direi quindi che è stato un momento molto importante».

Ha iniziato a vestire la maglia azzurra che era una ragazzina. Cosa significa per lei oggi, da giovane donna, giocare per la Nazionale?

«Fin da bambina indossare la maglia azzurra è sempre stato un sogno e farlo in una competizione internazionale è emozionante. Ogni volta è come fosse la prima. Ho la stessa voglia di giocare ed è sempre un orgoglio rappresentare l’Italia. In più, di recente siamo entrati nel Cip (Comitato italiano paralimpico, ndr), cosa che ci dà più risalto ed è un ulteriore motivo di soddisfazione».

La Nazionale, oltre che per le vittorie, ha colpito il pubblico anche per l’inno “segnato”. Come nasce questo inno?

«L’inno con la lingua dei segni è nato nel periodo di preparazione per i Deaflympics di Samsun, in Turchia. Durante quei raduni, più lunghi e numerosi del solito, cercavamo un modo per integrarci ancora di più tra chi aveva ausili, come protesi o impianti, e chi conosceva solo la Lis. Con la nostra allenatrice Alessandra Campedelli abbiamo quindi cominciato a provare a “segnare” l’inno. All’inizio non eravamo sincronizzate ma pian piano, provando e riprovando, impegnandoci ognuna di noi anche a casa, ci siamo riuscite. Abbiamo iniziato a metterlo in pratica in alcune amichevoli e il pubblico si emozionava insieme a noi».

Dopodiché avete emozionato tutto il mondo alle Deaflympics.

«Nessun’altra nazionale nel mondo segnava l’inno con tutti gli atleti. In Turchia l’abbiamo fatto e un genitore ha postato un video su Facebook che ha generato un numero incredibile di visualizzazioni, condivisioni e messaggi, anche da personaggi pubblici importanti: atleti di serie A, Berruto che allenava la nazionale maschile, l’allora presidente della Camera Boldrini. Ci hanno invitate in televisione e in alcuni eventi di rilievo. Siamo state anche chiamate dal presidente Mattarella in occasione dell’inaugurazione di un nuovo centro sportivo a Roma».

Cosa prova mentre segna l’inno?

«Ogni volta è un’emozione incredibile, ancor di più nelle manifestazioni importanti e all’estero. Durante l’inno sento il cuore che batte forte e mi sento orgogliosa di rappresentare l’Italia, di farlo con la lingua dei segni, anche per contribuire a superare le barriere. Infatti, spesso vediamo che nei palazzetti o quando andiamo nelle scuole, tante persone udenti, soprattutto giovani, segnano l’inno con noi».

Come sono le Deaflympics?

«C’è sempre un bel clima perché esattamente come nelle olimpiadi ci sono tutte le discipline e paesi di tutto il mondo. Nel villaggio italiano per quindici giorni si vive un clima bellissimo di preparazione e attesa. Poi è molto bello ritrovare le avversarie di sempre, nel nostro caso polacche, turche e ucraine, con le quali sono nate belle amicizie. In Turchia eravamo quasi tremila atleti, con ottantasei nazioni rappresentate e la cerimonia inaugurale è stata un qualcosa di incredibile».

Ce la racconti…

«Simile a quello che si vede in tv all’inaugurazione delle olimpiadi. Quando siamo scesi nello stadio con le bandiere dell’Italia e ci guardavamo nei maxi schermi ho sentito il cuore che mi batteva fortissimo».

L’ultimo successo in nazionale è arrivato questa estate, con il bronzo all’europeo. È soddisfatta?

«Volevo fortemente partecipare e infatti ho rinviato la mia laurea ad ottobre. Il bronzo è stato un risultato che ci ha permesso di salire ancora sul podio, e considerando anche la forza di Turchia e Ucraina è stato un ottimo risultato. Un buon punto di partenza per un nuovo ciclo».

E quel bronzo vi ha garantito l’accesso alle prossime Deaflympics di Tokyo nel 2025. Sta già pensando a questo appuntamento?

«Intanto lavoriamo al massimo per i mondiali del 2024 che si terranno sempre in Giappone. A Tokyo 2025 manca ancora tempo e voglio concentrarmi sul presente».

Fino ad ora qual è stato per lei il momento più bello della sua carriera?

«Sicuramente vincere l’oro all’europeo di Cagliari, nel 2019, è stato bellissimo da un punto di vista legato al risultato. Però scelgo il mio primo argento ai Deaflympics in Turchia, nel 2017, perché nella semifinale contro i favoriti degli Stati Uniti ho avuto un ruolo determinante. Vincendo quella partita, per la prima volta nella sua storia la nazionale femminile sorde ha vinto una medaglia ai Deaflympics».

Oggi gioca nell’Officina del Volley di Padova, in serie B2. Come sta andando?

«La squadra è molto forte e competitiva e siamo seconde in classifica. Dopo tre anni a Ferrara, città che adoro, con il Copparo in serie C, quest’anno per me è iniziata questa nuova esperienza a Padova dove tra poco inizierò anche un master in riabilitazione».

Ha mosso i suoi primi passi ad Ortona fra Start Volley e Impavida. Si sente di ringraziare queste realtà?

«Voglio ringraziare tutte le società in cui ho giocato, e quindi Antoniana Pescara, Teate Chieti, Guardiagrele, Città S. Angelo, Copparo e i GSS (Gruppi sportivi sordi, ndr) di Ancona e Modena. Mi sento di ringraziarle tutte perché in questi sedici anni ho trovato sempre una grande disponibilità, e anche se ci sono stati momenti e risultati diversi conservo sempre bei ricordi».

Qual è il suo sogno da atleta?

«Mondiali e Deaflympics».

E nella vita in generale?

«Mi piacerebbe lavorare nel mondo della riabilitazione e della fisioterapia, magari in ambito sportivo. E in futuro sogno di crearmi una famiglia». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA