Intervista a Maurizio Pollini (scomparso il 23 marzo a 82 anni) in occasione di un concerto a Roma, a Santa Cecilia, nel 2017: «Le mani e il cuore un unico spartito»

Il maestro Maurizio Pollini (scomparso il 23 marzo) si racconta prima di un concerto a Santa Cecilia nel 2017: Non sento il sacrificio, ho sempre scelto, con grande egoismo, pezzi di cui non mi stanco. Mai. Non ho mai suonato con noia, mai con mancanza di entusiasmo

Il pianista Maurizio Pollini scomparso il 23 marzo a 82 anni
di Simona Antonucci
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Domenica 24 Marzo 2024, 13:59

Suo papà, Gino, è stato un grande architetto, tra i fondatori del Movimento Razionalista italiano, sua madre, Renata, era musicista e suo zio un noto scultore, Fausto Melotti: che eredità le ha lasciato la sua famiglia? «Sono cresciuto in un ambiente di entusiasmo per l'arte in genere. Mio padre suonava il violino, mamma amava cantare, mio zio suonava il pianoforte e considerava la musica una grande fonte d'ispirazione per i suoi lavori. Quello che ricordo bene e con piacere è la presa di posizione nei confronti del moderno: l'amore per il nuovo, sempre».

Così si raccontò Maurizio Pollini, scomparso il 23 marzo a 82 anni, in occasione di un concerto all'Accademia di Santa Cecilia nel 2017. Un pianista cresciuto in una famiglia illuminata milanese dove la passione per l'arte è stata coltivata insieme con la passione civile. Colto e anticonformista, ha tenuto concerti nelle scuole di periferia e in fabbriche occupate e ha tenuto a battesimo opere di musicisti contemporanei, insieme con l'amico Claudio Abbado. La sua incisione del ciclo completo di Notturni di Chopin è stata un successo nella discografia italiana di musica classica senza precedenti. È stato per anni impegnato nel Progetto Pollini, concerti in cui ha proposto Beethoven, insieme con Berio e Nono. È considerato tra i più grandi pianisti viventi.

Arthur Rubinstein la ascoltò durante le selezioni del Concorso Chopin a Varsavia e disse: "Questo giovane suona già meglio tecnicamente di tutti noi". Questa frase ha accompagnato tutta la sua vita. Ha assunto sfumature diverse, a seconda dell'età? Orgoglio? Responsabilità?

«Questa frase è stata, se vogliamo, manomessa. Rubinstein era venuto per la serata finale. Non aveva ascoltato le prove. Sottolineò tecnicamente perché la sua era una presa di posizione ironica nei confronti della giuria. Faceva parte del suo carattere. Poi, certo, era anche un complimento nei miei confronti. Una responsabilità, però, non direi. Non più di quella che, facendo il mio lavoro, esiste comunque».

Ha mai detto a un giovane talento, quello che Rubinstein disse a lei?

«No. È la pura verità. Avrei dovuto trovare qualcuno. Ma non è capitato».

Il suo impegno è stato costante nel campo della cultura e del sociale: un rimpianto e una vittoria?

«La presa di posizione in favore della cultura non può che essere una costante della vita. Bisogna insistere e ripetere le stesse cosa a prescindere dalle battaglie vinte o perse. Siamo in un Paese che considera la cultura una specie di abbellimento perché non produce beni materiali. Invece è il contrario. Può dare una ricchezza straordinaria. E un aiuto incredibile, misterioso, che superficialmente non si vede».

Il rapporto tra le mani e il cuore: quanto possono le sue mani e che cosa vuole il suo cuore?

«Si dà per scontato che l'interpretazione debba venire dal cuore. Non è detto che sia così. Può venire da tante altre parti del corpo. Le persone sono un tutt'uno. E l'espressione è parte integrante della musica. Stravinskij non voleva esecuzioni sentimentali dei suoi brani. Eppure... Direi, che il rapporto tra mani e cuore risponde alle necessità dettate da uno spartito».

La sua tecnica è sempre stata considerata sbalorditiva ed impeccabile: la considera centrale, nel suo percorso?

«Non direi. È una necessità per l'esecuzione dei pezzi. Io non ho mai fatto esercizi tecnici. Mi sono sempre esercitato, ed è ancora così, nella musica. L'unica differenza, e me lo ha sempre detto Martha Argerich, che da vecchi bisogna lavorare di più. Credo che sia vero».

Quante ora suona?

«Suono ogni giorno. Non so quante ore, non ci faccio caso. Ma sempre la mattina. Il momento più chiaro e più lucido della giornata».

Piacere e sacrificio: che bilancio fa?

«Non sento il sacrificio. Forse, da ragazzo, qualche volta.

Ma andando avanti con gli anni, ho sempre scelto, con grande egoismo, pezzi di cui non mi stanco. Mai. Non ho mai suonato con noia, mai con mancanza di entusiasmo. E questo approccio, questo sentimento nei confronti nella musica che scelgo non è cambiato con il tempo. Anzi, scopro con grande piacere, nonostante gli anni, che la musica non mi stanca».

Lei ha sempre proposto Chopin, Beethoven, Schubert, Brahms, ma anche Schönberg, Berg, Webern, insieme con grandi autori contemporanei cui ha dedicato la massima attenzione. Una scelta dovuta all'impegno o alla passione?

«Eseguire la musica contemporanea in prestigiose sale da concerto è necessario. Il fatto che succeda di rado dipende dalla nostra situazione culturale. Assistiamo a un inedito distacco tra ciò che viene prodotto dagli autori dei nostri tempi e il pubblico. Mai accaduto nel passato. Fino all'Ottocento la musica apprezzata dalle folle era la musica classica, operistica. Eppure esistevano brani popolari, Beethoven li citava, Haydn li studiava. Ma non erano un fenomeno assimilabile alla musica leggera di oggi. L'entusiasmo che c'è oggi per la musica leggera deriva da una mancanza di divulgazione e di conoscenza della musica più importante. La musica artistica ha un ruolo incredibilmente modesto nella nostra società. Tutto questo dovrebbe cambiare».

Se fosse un maestro delle elementari, che cosa farebbe ascoltare a dei bambini?

«Di tutto, anche autori difficilissimi. Vivaldi, Bach e brani composti in questi anni. Senza ordine cronologico. Anche Stravinskij, certo, e Stockhausen».

La chiamata”: quando ha sentito di voler diventare pianista?

«Se c'è stato un momento chiave, è stato a Varsavia, al Concorso Chopin. Suonavo anche prima, con passione. Ma lì ho visto la mia posizione di pianista con chiarezza».

Una vita in compagnia di uno strumento: si è mai sentito un diverso?

«La mia è una vita di concerti. Una scelta che ti toglie varie altre possibilità. Ma è la vita che ho deciso di fare. E comunque è il numero di appuntamenti a fare la differenza. Quel numero va pensato bene. Fondamentale saper capire qual è quello giusto per mantenere un equilibrio tra la capacità di dare e il sentirsi appagati. Prima arrivavo a settanta esibizioni l'anno. Ora meno».

Nono, Berio, Bussotti, come prosegue la linea creativa nel mondo musicale italiano?

«Loro hanno rappresentato un periodo straordinario. La presenza dei loro brani nei calendari istituzionali è limitata. E invece sarebbe essenziale per la maturazione del pubblico. Il processo creativo non si è interrotto, ma dopo di loro vedo minor capacità far progredire il linguaggio musicale contemporaneo, che tra l'altro non è stato ancora digerito».

Quindici anni fa tenne il concerto d'inaugurazione dell'Auditorium: che ricordo conserva?

«La vita musicale romana, prima dell'Auditorium, era più limitata. Santa Cecilia, ora, è un luogo fondamentale per l'attività culturale della Capitale. Ci sono appena tornato a suonare e ci torno sempre volentieri».

Nella sua carriera, lei si è esibito anche come direttore d'orchestra.

«Per fortuna ho intuito chiaramente il pericolo. Sentivo che sarebbe stato un investimento di energia troppo importante e che avrebbe danneggiato la mia carriera, la mia realtà di pianista».

Anche suo figlio è musicista. Che scambio avete?

«Non credo sia giusto che proprio io ne faccia le lodi. Ha studiato molto, piano, direzione d'orchestra. Ora si dedica alla composizione. Sta ultimando un lavoro, piuttosto impegnativo, anche di musica elettronica, per un'orchestra molto grande. Vicino a essere finito. Vorrei ascoltarlo presto, il tempo passa».

Il tempo passa, che segni lascia?

«Lascia cose belle, ma purtroppo, passa».

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