Welfare, Tiziano Treu: «E' giunto il momento regole nazionali per riqualificare il sostegno integrativo»

Alla vigilia del cambio al vertice, il presidente del Cnel indica un programma per il Consiglio

Welfare, Tiziano Treu: «E' giunto il momento regole nazionali per riqualificare il sostegno integrativo»
di Marco Barbieri
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Venerdì 28 Aprile 2023, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 19 Maggio, 15:31

Il suo manuale sul “welfare aziendale” è arrivato alla quarta edizione. Prima di essere stato ministro, politico di lungo corso, commissario Inps, presidente del Cnel (ancora per qualche settimana), Tiziano Treu è “professore” e “giuslavorista delle origini” – come ama definirsi.

«Sempre di più il diritto del lavoro deve dare spazio al diritto del welfare» precisa, confermando l’attenzione costante e continua a quel fenomeno che per molti decenni è sembrato doversi considerare poco più di una dimensione filantropica, o uno degli effetti di visioni quasi temerarie di imprenditori illuminati. Basterebbe citare Adriano Olivetti. Oggi il nuovo orizzonte della sostenibilità necessaria – a tutti i livelli, sociale, ambientale, economica – e forse anche le conseguenze di una ritrovata centralità delle risorse umane, della necessità di bilanciare vita e lavoro, di recuperare una dimensione “olistica” – come va di moda dire – nello sguardo sulle persone (prima ancora della loro definizione di lavoratori), ripropone con forza il tema del welfare integrativo.

Rifletterne con il professor Treu è un’occasione sempre opportuna, approfittando delle sue ultime giornate al vertice del Cnel.

Con la legge di stabilità del 2016 il welfare aziendale divenne un’opportunità “di massa” per le imprese, grazie al collegamento con i premi di risultato. È stata una sua definizione: si è passati da un fenomeno di élite aziendale, a un fenomeno di massa, per tutte le aziende. In mezzo ci sono state la pandemia, l’inflazione, la crisi energetica. In sette anni, da quel 2016 è cambiato il mondo, non solo l’Italia. Come rilanciare il welfare aziendale?

«Non si tratta solo di rilanciarlo, forse non ce n’è nemmeno bisogno. Il welfare integrativo, come anche quello aziendale, è diventato una componente fondamentale del sistema economico e del mondo delle imprese. C’è bisogno forse di qualificarlo, individuando dei criteri che giustifichino sempre più, meglio e puntualmente le ragioni di una tassazione ridotta e di una incentivazione di prestazioni che integrano le misure di protezione sociale e completano le dinamiche retributive in azienda».

Criteri giustificativi: allora non si è del tutto sopita una resistenza culturale, soprattutto espressa da una parte sindacale, che aveva frenato l’evoluzione del welfare integrativo e di quello aziendale?

«La vocazione universalistica del welfare state non può essere ritrovata nelle forme di welfare integrativo. Per sua natura è differenziato e naturalmente, soprattutto a livello aziendale, privilegia le aree più ricche, o comunque più capaci di generare ricchezza. Da qui sono nate le obiezioni, soprattutto della Cgil, ma anche della Uil, che hanno visto il fenomeno del welfare integrativo come un elemento sperequativo: piove sul bagnato.

Oggi molta acqua è passata sotto i ponti, per fortuna. E si guarda a questi elementi di nuova redistribuzione con uno sguardo più laico. Ma è giusto fare una riflessione per vedere dove mettere nuovi stimoli, non solo monetari, ma anche organizzativi».

Welfare integrativo sì, ma non solo aziendale?

«L’uno e l’altro. Ma bisogna rammentare che se fosse solo aziendale avrebbe una copertura sì e no del 30% della popolazione dei lavoratori italiani. Bisogna immaginare strumenti normativi capaci di orientare tutto il welfare integrativo, non solo quello aziendale».

Ci vuole una norma, una legge?

«Basterebbero delle linee guida condivise con le parti sociali per ribadire le iniziative di welfare integrativo, come rivolte all’utilità sociale, al bene sociale. Bisogna rafforzare innanzitutto il welfare integrativo a livello della contrattazione collettiva nazionale. Ci sono settori che hanno iniziato a farlo. I metalmeccanici hanno già scelto di scambiare soldi con prestazioni sanitarie o previdenziali».

In queste “linee guida” che si immagina di vedere definite per il nuovo welfare integrativo ci sarebbe spazio anche per il “nuovo” welfare aziendale?

«Certamente, con due preoccupazioni. Da un lato bisognerebbe cercare di privilegiare i benefit e non i bonus. La logica emergenziale non può guidare la costruzione del futuro. D’altro canto, anche i benefit dovrebbero avere un trattamento diverso. Nella quarta edizione del manuale che stiamo aggiornando, abbiamo catalogato oltre cento items: un elenco sterminato di prestazioni che compongono l’offerta delle piattaforme di welfare aziendale. Ma il corso per studiare il rito del tè non dovrebbe avere lo stesso trattamento fiscale delle iniziative che privilegiano la conciliazione vita-lavoro per le donne che hanno figli».

Privilegiare i servizi alla persona?

«In qualche modo sì. Anche sulla scia delle indicazioni dei progetti del Pnrr. Prendiamo l’esempio degli asili nido: si dovrebbero favorire sia le iniziative degli enti locali, sia quelle delle aziende che si impegnano a costruire strutture per i figli dei dipendenti, con la stessa fiscalità di vantaggi dei progetti Pnrr. Un altro esempio? La non autosufficienza. Ma in questo caso forse non basterebbero le linee guida: sulla long term care (Ltc) occorre una normativa, urgente. Una tassa di scopo. L’evoluzione demografica è chiara. E i problemi della non autosufficienza non possono essere affidati a qualche iniziativa lodevole ma isolata, di qualche azienda volenterosa che se lo può permettere».

Il welfare aziendale talvolta contamina positivamente il welfare del territorio, che tuttavia è in molte situazioni appannaggio dell’iniziativa degli enti locali. Possiamo immaginare una contaminazione positiva?

«Welfare aziendale e welfare sociale devono essere integrati. Nelle linee guida che immagino si dovrebbe prevedere questa possibilità, soprattutto in alcune materie più adeguate al territorio: dall’assistenza per gli anziani alla mobilità. A livello territoriale si potrebbe regolare meglio il ruolo degli enti bilaterali, che meritano qualche controllo in più in cambio di una maggiore responsabilità di intervento».

Linee guida e qualche intervento normativo, per Ltc ed enti bilaterali, a esempio. E in materia di lavoro è opportuno immaginare un veicolo che preveda questa risistemazione del welfare integrativo e aziendale?

«Certo che sì. Le regole sul mercato del lavoro non si possono limitare alle questioni relative ai contratti a termine. Ma anche in tema di salute…».

Che cosa serve normare a proposito di salute in materia di welfare integrativo?

«A differenza della previdenza complementare tutta la sanità integrativa è priva di controllo».

Quando si richiedono norme e controlli si dovrebbe disporre di qualche osservatorio capace di avere tutte le informazioni?

«Giusto. Lo vediamo anche nel dibattito sul Pnrr: il nostro Paese fa sempre difetto quando si parla di monitoraggio. Occorrono piattaforme uniche dove convogliare i flussi informativi e poi adeguate strutture di analisi. Il welfare integrativo è sempre più studiato, per iniziativa di soggetti privati che operano nel mercato, compagnie assicurative, provider. Manca un Osservatorio istituzionale».

Potrebbe farlo il Cnel?

«Ammetto che in questi anni di presidenza non abbiamo promosso un focus specifico sul tema, anche se sarebbe opportuno. Un po’ colpa mia, un po’ mancanza di sollecitazione da parte dei soggetti che fanno parte del Consiglio».

Potrebbe essere un tema in agenda per il prossimo vertice del Cnel, quello che prenderà la sua responsabilità?

«Perché no? Ne parlerò al nuovo presidente Renato Brunetta».

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