Ben Pastor e i Promessi Sposi: «Chi ha ucciso il perfido Innominato?»

Esce il 7 maggio "La fossa dei lupi", il romanzo che riparte da Manzoni (e diventa noir)

Ben Pastor e i Promessi Sposi: «Chi ha ucciso il perfido Innominato?»
di Riccardo De Palo
4 Minuti di Lettura
Sabato 4 Maggio 2024, 07:00

«I Promessi Sposi sono un noir, la storia di un crimine che non viene punito. Don Rodrigo, il mandante, muore. E l’esecutore materiale, l’Innominato, ha la bella idea di diventare buono». L’idea di andare oltre «era troppo golosa». E così, ecco La fossa dei lupi: cosa succede se ci ritroviamo davanti i protagonisti del capolavoro di Alessandro Manzoni a tre anni dall’inizio delle loro avventure, nel novembre del 1628? E soprattutto, se ci accorgiamo che qualcuno ha ucciso l’Innominato? L’autrice di questo romanzo in uscita il prossimo 7 maggio, Ben Pastor, 74 anni, pseudonimo di Maria Verbena Volpi Pastor, nata a Roma, doppia cittadinanza italiana e americana. «Mia figlia vive ancora in Vermont - racconta l’autrice dal suo rifugio tra le campagne di Piacenza e Pavia - Io mi sento italiana, perché è la mia lingua, la mia famiglia. Mi riconosco di più nel contesto americano per la praticità: in quindici minuti rinnovi la patente». Anche nelle origini italiane, «la mescolanza è totale»: «Mia madre era aretina, mia nonna fiorentina, mio nonno marchigiano, mio padre lombardo». Ben Pastor ha insegnato Storia e Scienze sociali presso diverse università americane. Oltre al ciclo dedicato al soldato-detective Martin Bora, è autrice della serie su Elio Sparziano, investigatore del IV secolo d.C.


Come è nato il romanzo?
«Ero una di quelle fanciulle che davvero amavano i Promessi Sposi. Vivevamo in provincia, nostro padre era medico condotto, avevamo una biblioteca di famiglia, quindi il grande intrattenimento erano i libri. E Manzoni era un grande raccontatore. La storia in sé è interessante, e lancia delle esche, alla fine. Noi sappiamo che l’Innominato si converte, ma in fondo viviamo nel paese dei pentiti. Cosa succede dopo? La scampano davvero? Renzo e Lucia se ne vanno nella Bergamasca. Ci restano? Fanno fortuna?»


Di qui, l’idea di un sequel, come nelle serie tv?
«Bisognava immaginare di rendere il romanzo fruibile a un altro pubblico. A noi che siamo postmoderni, un po’ cinici, più aperti alla narrativa con un po’ di sensualità, cosa che in Manzoni manca. Leggiamo della povera monaca di Monza, “e la sventurata rispose”, e il resto ce lo dobbiamo immaginare».


Chi è il luogotenente Diego Antonio Olivares?
«Il protagonista, che non poteva certo essere un personaggio dei Promessi Sposi. Mi ritrovavo davanti dei personaggi scritti, studiati e sviscerati in ogni loro forma. Ma quello principale doveva essere rimosso da questo gruppo, di modo da poterlo osservare. Ho scelto di rovesciare il punto di vista di Manzoni.

Lui parla dell’oppressione spagnola, ma intende quella austriaca, è un uomo prudente. Infatti alla Cinque Giornate di Milano vanno i figli, mentre lui si mantiene lontano dalla barricate».


Soffriva di attacchi di panico, no?
«Certo. Ho scelto un personaggio italo-spagnolo, perché ho scoperto nel lavoro pregresso al romanzo che l’amministrazione spagnola della Lombardia e del ducato di Milano fu abbastanza specchiata: permisero ai milanesi di gestire la loro città e si limitarono a ritirare le tasse e ad omaggiare la Chiesa».


Come era davvero il mondo dei Promessi Sposi? 
«Per Manzoni era un mondo guidato dalla provvidenza. Ma nel terzo millennio ci si deve affidare alla giustizia degli umani, imperfetta per definizione. Ci vuole anche un contrappasso. L’Innominato non può vivere tutta una vita felice dopo quello che ha combinato».


È noto che scrive tutti i suoi libri in inglese. Anche in questo caso?

«No, non ho potuto farlo. Pur essendo perfettamente bilingue mi sono resa conto che i termini che usa Manzoni sono impossibili da rendere in un’altra lingua. Piuttosto che costringere un traduttore a sobbarcarsi questa fatica, dovevo provare a scrivere direttamente in italiano. Per me è stata una prima prova. Ho letto i Promessi Sposi in inglese, in una edizione del 1910: a un madrelingua inglese questo mondo è del tutto estraneo. Così come Moby Dick, che è uno dei miei romanzi preferiti: in italiano non è la stessa cosa».

Nel riprendere il libro di Manzoni, non si rischia di rovinare il lieto fine, il classico “e vissero felici e contenti” delle favole?
«Sì ma noi alle favole non crediamo più. Manzoni ha lasciato dei non detti. Lucia era davvero bella? Magari era attraente solo agli occhi di un giovane campagnolo, un baggiano, come lo chiama in termini dialettali Manzoni».


Nei suoi libri si avvertono sempre echi di classici. Qui c’è un po’ del conte di Montecristo?
«Sì certamente: è uno dei libri più cattivi sulla faccia della Terra, la storia di una vendetta. Manzoni era un credente, ma penso che Dumas o padre e figlio non credessero in nulla».


Erano più simili a lei?
«Io non ammazzo nemmeno le mosche ma ho sempre sfiducia su come andranno le cose. Abbiamo costruito un mondo che non è perfetto. È fragile, ma funziona. Ho visto in tv La battaglia degli Imperi, con Jackie Chan che si scontra con i romani, e però non vuole uccidere, vuole cercare un accordo. Di questi tempi bisogna proprio pensare che sia possibile. Bisogna sempre lasciare a tutti la possibilità di un finale diverso».

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