Tenta il suicidio per 44 ore sul balcone: la vita difficile di Dante, da donna a uomo

Tenta il suicidio per 44 ore sul balcone: la vita difficile di Dante, da donna a uomo
di Patrizia Pennella
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Sabato 2 Marzo 2024, 07:17

«Ditemi cosa devo fare»: in quattro parole la storia di chi si affida. La porta dell’appartamento al quinto piano di piazza dello Spirito santo, a Pescara, si apre quel tanto che basta per dare modo alla polizia e ai soccorritori di entrare. Dopo quarantaquattro ore in equilibrio su un davanzale di venti centimetri Dante è entrato in casa, ha spostato i mobili che avevano impedito ai vigili del fuoco di utilizzare le lastre e, di fatto, si è consegnato. Con un’espressione che nello scorrere di pochi secondi passa dalla paura all’accettazione.

L’accettazione di un gesto gentile, poi anche di una carezza per il cane. Poi Dante, nato biologicamente domma con il nome di Renata, chiede una tazza di tè. Qualcosa che gli tolga di dosso il freddo di due notti passate in piedi, al più accovacciato, in quello spazio aperto ma tanto più piccolo di una cella, in cui si era costretto. Un soccorritore lo avvolge in una coperta azzurra e coperto da un cordone di polizia viene accompagnato fino all’ambulanza che lo porterà in ospedale.

«Aveva perso la mamma, prima ancora anche una nonna importante. Non ha avuto intorno a sé quella rete familiare che è propria della nostra storia. Il suo unico amico era il cane», anche lui preso in carico e affidato a una struttura. È il questore Carlo Solimene ha fare uno schizzo di una vita a cui di lineare era rimasto poco e che con molta probabilità avrebbe avuto bisogno di un sostegno sociale diverso. L’equilibrio precario dei pensieri è direttamente proporzionale alla forza con cui è riuscito a controllare il suo corpo, fin quando ha capito che non poteva più farcela: ed è allora che la macchina della negoziazione coordinata dal dirigente dell’ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico Pierpaolo Varrasso ha raggiunto il risultato.

Quarantaquattro ore di parole, di persone che si sono alternate dietro le sbarre di una finestra, lasciando che dalla confusione che aveva portato il ventitreenne su quel balcone uscissero spunti, temi con cui agganciare l’attenzione.

Accanto a Varrasso il medico della questura, Sara Cortese: «Abbiamo lavorato tanto - racconta -, dovevamo riuscire a comunicare con lui, trovare gli argomenti di forza con cui agganciarlo, abbiamo sviscerato tutti gli argomenti possibili. Abbiamo parlato di parenti, abbiamo parlato di valori, perché il ragazzo ne ha e quindi rimaneva agganciato a noi, ci guardava, manteneva il contatto e quindi è riuscito a venirci incontro. Abbiamo lasciato che fosse lui a introdurre i vari argomenti su cui trovare un contatto. È stato un lavoro di squadra, abbiamo dovuto inserire una persona alla volta, farlo fidare di questa persona e creare un team».

Ma dietro il complesso lavoro alla finestra c’era una macchina enorme che doveva funzionare: «Innanzitutto il coordinamento di tutte le figure di base previste nel protocollo di intervento - spiega Pierpaolo Varrasso - quindi vigili del fuoco, polizia locale, oltre agli uffici della questura. Una struttura multivello. L’area intorno all’edificio è stata resa il più possibile sterile, anche per evitare le interferenze di persone che avrebbero potuto innervosire il ragazzo. Gestire questo sistema richiede una valutazione costante dei tempi, in modo da garantire la necessaria rotazione. Dalle parole del ragazzo poi abbiamo cercato di capire quali figure potessero incidere positivamente sui meccanismi decisionali. Bisogna tenere presente che in casi di disagio come questi non c’è un rapporto tra pari, tra le tante cose che la persona con cui si tratta dice bisogna capire e scegliere quelle che poi sono effettivamente importanti. Man mano che la situazione muta, valuti, ragioni e prendi in considerazioni le ipotesi»

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