Paolo Balduzzi
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Occasioni perse/ La battaglia sul merito che non piace alla sinistra

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 27 Ottobre 2022, 23:58

Lo stupore del Presidente del consiglio, Giorgia Meloni, è lo stupore di tutti gli elettori, di destra, di centro e di sinistra. Come può un tema come quello del merito, cioè della mobilità sociale basata sui propri sforzi e sulle proprie capacità, non essere caro alla sinistra? O meglio, a una certa intellighenzia e classe politica progressista, che sulla nuova denominazione del Ministero dell’istruzione si è scatenata polemicamente in maniera incomprensibile? Appunto, non lo si capisce. Con la battaglia sul merito, Giorgia Meloni riesce magistralmente a sfilare dall’arsenale della sinistra una di quelle che dovrebbero essere invece le sue frecce migliori. È già successo col femminismo, sbandierato da sempre a sinistra ma poi, alla prova dei fatti, dimenticato - dopo le grandi conquiste del secolo scorso - e ora scarsamente applicato. E chissà che la strategia non possa essere replicata anche in futuro, magari con i diritti civili. Non ci aspettiamo certo passi in avanti sul tema dell’eutanasia da un governo di centrodestra (o conservatore, per citare il premier). Ma, proprio per questo, quei passi in avanti ce li saremmo aspettati da chi ora è all’opposizione.


Durante le ultime campagne elettorali, la sinistra ha sempre, e correttamente, sostenuto ampi principi di inclusione; ma, se ci pensiamo attentamente, in cosa mai questi principi si sono tradotti durante gli anni dei governi di centrosinistra? Vengono in mente le unioni civili, certo. Ma è l’unica risposta. E, ironia della sorte, queste vennero introdotte dal governo Renzi, che nel Partito democratico è sempre stato mal sopportato (e considerato troppo “a destra”). Torniamo quindi al merito. Ogni volta che qualche ricercatore prova a misurarlo, il nostro paese ne esce a pezzi. Soprattutto guardando ai confronti internazionali. Da quasi dieci anni, l’associazione apartitica “Forum della meritocrazia” ha proposto una metrica di misurazione del merito che fa riferimento a diverse dimensioni: qualità del sistema educativo, certezza delle regole, corruzione, libertà economica, pari opportunità di genere, attrattività delle competenze migliori e, infine, mobilità sociale. Da quando l’indice è misurato, l’Italia si è sempre classificata all’ultimo posto in termini globali; spesso, è risultata ultima anche relativamente alle singole dimensioni. È evidente quindi non solo l’esistenza ma anche la gravità del problema: in Italia l’ascensore sociale è fermo. E l’immagine di una scala mobile nella metropolitana di Roma, bloccata per manutenzione da anni, è la prima che ci viene in mente. Chi è già in alto, resta in alto; chi parte dal basso, deve fare il doppio della fatica. E magari non basta nemmeno quello. Molti di noi conoscono bene questa situazione, per esperienza personale o per quella di persone care.

Ma non si tratta solo di aneddotica: sono i dati a certificarlo. Va più facilmente avanti chi ha una famiglia che lo protegge, studia più a lungo chi ha genitori laureati. Ed essere donna in Italia, nel 2022, è ancora uno svantaggio, sia in termini di carriera sia in termini di retribuzione. Mettere la testa sotto la sabbia, solo perché il tema è stato posto dalla destra, significa rendersi corresponsabili di un disastro sociale.


Tuttavia, si possono capire alcune resistenze. Al momento, il “merito” è solo un titolo, una parola, un’appendice. Il concetto è ancora tutto da riempire. Che cosa si intende per merito? O meglio: che cosa si dovrebbe intendere? Un approccio che ponesse l’intera enfasi sui risultati sarebbe errato. Su questi, infatti, influiscono almeno due elementi. Il primo è ovviamente lo sforzo. È corretto retribuire o premiare chi si sforza di più e chi lavora meglio. Il secondo elemento è invece definito dalle condizioni di partenza. E premiare qualcuno in base a un risultato (un’occupazione, uno stipendio, un voto scolastico) che dipende dall’ambiente in cui quella persona vive e cresce è invece profondamente sbagliato; anzi, è proprio l’opposto del concetto di merito. Questo approccio è noto in filosofia politica e in economia come “uguaglianza delle opportunità”. Lo Stato dovrebbe accettare, ed eventualmente premiare, le differenze che derivano da sforzi diversi; dovrebbe invece farsi carico di neutralizzare, o perlomeno limitare, le differenze che derivano dalle diverse condizioni di partenza: il luogo di nascita, per esempio; il titolo di studio o la professione dei genitori; il reddito famigliare; e così via. Un ultimo aspetto basilare per la definizione corretta di merito è quello della valutazione.

Nell’ambito dell’istruzione, la valutazione da realizzare non è tanto quella degli studenti quanto quella degli insegnanti. Un tema sicuramente caldo e divisivo, contro cui, c’è da scommettere, molti sindacati innalzeranno barricate. Saremmo d’accordo con loro, se quelle barricate fossero innalzate per chiedere che la valutazione non si fermi ai soli insegnanti ma si estenda a tutti i lavoratori del settore pubblico, a partire dalle più elevate burocrazie. Un processo che per alcuni esiste già; per esempio, nelle università, dove gli avanzamenti di carriera dipendono dalla qualità della ricerca (anche se, tristemente, non dalla qualità dell’insegnamento) e dove anche gli scatti di stipendio sono legati alla quantità delle pubblicazioni. Se avessimo dovuto immaginare una battaglia bipartisan in Parlamento, non sarebbe certo stata sul fisco o sulle pensioni. Sarebbe stata invece, ironicamente, proprio quella sul merito. Fortunatamente, la legislatura è lunga. E l’opposizione ha ancora tutto il tempo per cambiare idea.

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